POESIE

sabato 12 dicembre 2015

I FIGLI DI BABBO NATALE (Italo Calvino)






Non c'è epoca dell'anno più gentile e buona, per il mondo dell'industria e del commercio, che il Natale e le settimane precedenti. Sale dalle vie il tremulo suono delle zampogne; e le società anonime, fino a ieri freddamente intente a calcolare fatturato e dividendi, aprono il cuore agli affetti e al sorriso. L'unico pensiero dei Consigli d'amministrazione adesso è quello di dare gioia al prossimo, mandando doni accompagnati da messaggi d'augurio sia a ditte consorelle che a privati; ogni ditta si sente in dovere di comprare un grande stock di prodotti da una seconda ditta per fare i suoi regali alle altre ditte; le quali ditte a loro volta comprano da una ditta altri stock di regali per le altre; le finestre aziendali restano illuminate fino a tardi, specialmente quelle del magazzino, dove il personale continua le ore straordinarie a imballare pacchi e casse; al di là dei vetri appannati, sui marciapiedi ricoperti da una crosta di gelo s'inoltrano gli zampognari, discesi da buie misteriose montagne, sostano ai crocicchi del centro, un po' abbagliati dalle troppe luci, dalle vetrine troppo adorne, e a capo chino dànno fiato ai loro strumenti; a quel suono tra gli uomini d'affari le grevi contese d'interessi si placano e lasciano il posto ad una nuova gara: a chi presenta nel modo più grazioso il dono più cospicuo e originale.
Alla Sbav quell'anno l'Ufficio Relazioni Pubbliche propose che alle persone di maggior riguardo le strenne fossero recapitate a domicilio da un uomo vestito da Babbo Natale.
L'idea suscitò l'approvazione unanime dei dirigenti. Fu comprata un'acconciatura da Babbo Natale completa: barba bianca, berretto e pastrano rossi bordati di pelliccia, stivaloni. Si cominciò a provare a quale dei fattorini andava meglio, ma uno era troppo basso di statura e la barba gli toccava per terra, uno era troppo robusto e non gli entrava il cappotto, un altro troppo giovane, un altro invece troppo vecchio e non valeva la pena di truccarlo.
Mentre il capo dell'Ufficio Personale faceva chiamare altri possibili Babbi Natali dai vari reparti, i dirigenti radunati cercavano di sviluppare l'idea: l'Ufficio Relazioni Umane voleva che anche il pacco-strenna alle maestranze fosse consegnato da Babbo Natale in una cerimonia collettiva; l'Ufficio Commerciale voleva fargli fare anche un giro dei negozi; l'Ufficio Pubblicità si preoccupava che facesse risaltare il nome della ditta, magari reggendo appesi a un filo quattro palloncini con le lettere S, B, A, V.
Tutti erano presi dall'atmosfera alacre e cordiale che si espandeva per la città festosa e produttiva; nulla è più bello che sentire scorrere intorno il flusso dei beni materiali e insieme del bene che ognuno vuole agli altri; e questo, questo soprattutto - come ci ricorda il suono, firulí firulí, delle zampogne -, è ciò che conta.
In magazzino, il bene - materiale e spirituale - passava per le mani di Marcovaldo in quanto merce da caricare e scaricare. E non solo caricando e scaricando egli prendeva parte alla festa generale, ma anche pensando che in fondo a quel labirinto di centinaia di migliaia di pacchi lo attendeva un pacco solo suo, preparatogli dall'Ufficio Relazioni Umane; e ancora di più facendo il conto di quanto gli spettava a fine mese tra " tredicesima mensilità " e " ore straordinarie ". Con qui soldi, avrebbe potuto correre anche lui per i negozi, a comprare comprare comprare per regalare regalare regalare, come imponevano i più sinceri sentimenti suoi e gli interessi generali dell'industria e del commercio.
Il capo dell’Ufficio Personale entrò in magazzino con una barba finta in mano: - Ehi, tu! - disse a Marcovaldo. - Prova un po' come stai con questa barba. Benissimo! Il Natale sei tu. Vieni di sopra, spicciati. Avrai un premio speciale se farai cinquanta consegne a domicilio al giorno.
Marcovaldo camuffato da Babbo Natale percorreva la città, sulla sella del motofurgoncino carico di pacchi involti in carta variopinta, legati con bei nastri e adorni di rametti di vischio e d'agrifoglio. La barba d'ovatta bianca gli faceva un po’ di pizzicorino ma serviva a proteggergli la gola dall'aria.
La prima corsa la fece a casa sua, perché non resisteva alla tentazione di fare una sorpresa ai suoi bambini. " Dapprincipio, - pensava, non mi riconosceranno. Chissà come rideranno, dopo! "
I bambini stavano giocando per la scala. Si voltarono appena. - Ciao papà.
Marcovaldo ci rimase male. -Mah... Non vedete come sono vestito?
- E come vuoi essere vestito? - disse Pietruccio. - Da Babbo Natale, no?
- E m'avete riconosciuto subito?
- Ci vuol tanto! Abbiamo riconosciuto anche il signor Sigismondo che era truccato meglio di te!
- E il cognato della portinaia!
- E il padre dei gemelli che stanno di fronte!
- E lo zio di Ernestina quella con le trecce!
- Tutti vestiti da Babbo Natale? - chiese Marcovaldo, e la delusione nella sua voce non era soltanto per la mancata sorpresa familiare, ma perché sentiva in qualche modo colpito il prestigio aziendale.
- Certo, tal quale come te, uffa, - risposero i bambini, - da Babbo Natale, al solito, con la barba finta, - e voltandogli le spalle, si rimisero a badare ai loro giochi.
Era capitato che agli Uffici Relazioni Pubbliche di molte ditte era venuta contemporaneamente la stessa idea; e avevano reclutato una gran quantità di persone, per lo più disoccupati, pensionati, ambulanti, per vestirli col pastrano rosso e la barba di bambagia. I bambini dopo essersi divertiti le prime volte a riconoscere sotto quella mascheratura conoscenti e persone del quartiere, dopo un po' ci avevano fatto l'abitudine e non ci badavano più.
Si sarebbe detto che il gioco cui erano intenti li appassionasse molto. S'erano radunati su un pianerottolo, seduti in cerchio. - Si può sapere cosa state complottando? - chiese Marcovaldo.
- Lasciaci in pace, papà, dobbiamo preparare i regali.
- Regali per chi?
- Per un bambino povero. Dobbiamo cercare un bambino povero e fargli dei regali.
- Ma chi ve l'ha detto?
- C'è nel libro di lettura.
Marcovaldo stava per dire: " Siete voi i bambini poveri! ", ma durante quella settimana s'era talmente persuaso a considerarsi un abitante del Paese della Cuccagna, dove tutti compravano e se la godevano e si facevano regali, che non gli pareva buona educazione parlare di povertà, e preferì dichiarare: - Bambini poveri non ne esistono più!
S'alzò Michelino e chiese: - È per questo, papà, che non ci porti regali?
Marcovaldo si sentí stringere il cuore. - Ora devo guadagnare degli straordinari, - disse in fretta, - e poi ve li porto.
- Li guadagni come? - chiese Filippetto.
- Portando dei regali, - fece Marcovaldo.
- A noi?
- No, ad altri.
- Perché non a noi? Faresti prima..
Marcovaldo cercò di spiegare: - Perché io non sono mica il Babbo Natale delle Relazioni Umane: io sono il Babbo Natale delle Relazioni Pubbliche. Avete capito?
- No.
- Pazienza -. Ma siccome voleva in qualche modo farsi perdonare d'esser venuto a mani vuote, pensò di prendersi Michelino e portarselo dietro nel suo giro di consegne. - Se stai buono puoi venire a vedere tuo padre che porta i regali alla gente, - disse, inforcando la sella del motofurgoncino.
- Andiamo, forse troverò un bambino povero, - disse Michelino e saltò su, aggrappandosi alle spalle del padre.
Per le vie della città Marcovaldo non faceva che incontrare altri Babbi Natale rossi e bianchi, uguali identici a lui, che pilotavano camioncini o motofurgoncini o che aprivano le portiere dei negozi ai clienti carichi di pacchi o li aiutavano a portare le compere fino all'automobile. E tutti questi Babbi Natale avevano un'aria concentrata e indaffarata, come fossero addetti al servizio di manutenzione dell'enorme macchinario delle Feste.
E Marcovaldo, tal quale come loro, correva da un indirizzo all'altro segnato sull'elenco, scendeva di sella, smistava i pacchi del furgoncino, ne prendeva uno, lo presentava a chi apriva la porta scandendo la frase:
- La Sbav augura Buon Natale e felice anno nuovo,- e prendeva la mancia.
Questa mancia poteva essere anche ragguardevole e Marcovaldo avrebbe potuto dirsi soddisfatto, ma qualcosa gli mancava. Ogni volta, prima di suonare a una porta, seguito da Michelino, pregustava la meraviglia di chi aprendo si sarebbe visto davanti Babbo Natale in persona; si aspettava feste, curiosità, gratitudine. E ogni volta era accolto come il postino che porta il giornale tutti i giorni.
Suonò alla porta di una casa lussuosa. Aperse una governante. - Uh, ancora un altro pacco, da chi viene?
- La Sbav augura...
- Be', portate qua, - e precedette il Babbo Natale per un corridoio tutto arazzi, tappeti e vasi di maiolica. Michelino, con tanto d'occhi, andava dietro al padre.
La governante aperse una porta a vetri. Entrarono in una sala dal soffitto alto alto, tanto che ci stava dentro un grande abete. Era un albero di Natale illuminato da bolle di vetro di tutti i colori, e ai suoi rami erano appesi regali e dolci di tutte le fogge. Al soffitto erano pesanti lampadari di cristallo, e i rami più alti dell'abete s'impigliavano nei pendagli scintillanti. Sopra un gran tavolo erano disposte cristallerie, argenterie, scatole di canditi e cassette di bottiglie. I giocattoli, sparsi su di un grande tappeto, erano tanti come in un negozio di giocattoli, soprattutto complicati congegni elettronici e modelli di astronavi. Su quel tappeto, in un angolo sgombro, c'era un bambino, sdraiato bocconi, di circa nove anni, con un'aria imbronciata e annoiata. Sfogliava un libro illustrato, come se tutto quel che era li intorno non lo riguardasse.
- Gianfranco, su, Gianfranco, - disse la governante, - hai visto che è tornato Babbo Natale con un altro regalo?
- Trecentododici, - sospirò il bambino - senz'alzare gli occhi dal libro. - Metta lí.
- È il trecentododicesimo regalo che arriva, - disse la governante. - Gianfranco è cosí bravo, tiene il conto, non ne perde uno, la sua gran passione è contare.
In punta di piedi Marcovaldo e Michelino lasciarono la casa.
- Papà, quel bambino è un bambino povero? - chiese Michelino.
Marcovaldo era intento a riordinare il carico del furgoncino e non rispose subito. Ma dopo un momento, s'affrettò a protestare: - Povero? Che dici? Sai chi è suo padre? È il presidente dell'Unione Incremento Vendite Natalizie! Il commendator...
S'interruppe, perché non vedeva Michelino. Michelino, Michelino! Dove sei? Era sparito.
" Sta’ a vedere che ha visto passare un altro Babbo Natale, l'ha scambiato per me e gli è andato dietro... " Marcovaldo continuò il suo giro, ma era un po' in pensiero e non vedeva l'ora di tornare a casa.
A casa, ritrovò Michelino insieme ai suoi fratelli, buono buono.
- Di' un po', tu: dove t'eri cacciato?
- A casa, a prendere i regali... Si, i regali per quel bambino povero...
- Eh! Chi?
- Quello che se ne stava cosi triste.. - quello della villa con l'albero di Natale...
- A lui? Ma che regali potevi fargli, tu a lui?
- Oh, li avevamo preparati bene... tre regali, involti in carta argentata.
Intervennero i fratellini. Siamo andati tutti insieme a portarglieli! Avessi visto come era contento!
- Figuriamoci! - disse Marcovaldo. - Aveva proprio bisogno dei vostri regali, per essere contento!
- Sí, sí dei nostri... È corso subito a strappare la carta per vedere cos'erano...
- E cos'erano?
- Il primo era un martello: quel martello grosso, tondo, di legno...
- E lui?
- Saltava dalla gioia! L'ha afferrato e ha cominciato a usarlo!
- Come?
- Ha spaccato tutti i giocattoli! E tutta la cristalleria! Poi ha preso il secondo regalo...
- Cos'era?
- Un tirasassi. Dovevi vederlo, che contentezza... Ha fracassato tutte le bolle di vetro dell'albero di Natale. Poi è passato ai lampadari...
- Basta, basta, non voglio più sentire! E... il terzo regalo?
- Non avevamo più niente da regalare, cosi abbiamo involto nella carta argentata un pacchetto di fiammiferi da cucina. È stato il regalo che l'ha fatto più felice. Diceva: " I fiammiferi non me li lasciano mai toccare! " Ha cominciato ad accenderli, e...
-E...?
- …ha dato fuoco a tutto!
Marcovaldo aveva le mani nei capelli. - Sono rovinato!
L'indomani, presentandosi in ditta, sentiva addensarsi la tempesta. Si rivesti da Babbo Natale, in fretta in fretta, caricò sul furgoncino i pacchi da consegnare, già meravigliato che nessuno gli avesse ancora detto niente, quando vide venire verso di lui tre capiufficio, quello delle Relazioni Pubbliche, quello della Pubblicità e quello dell'Ufficio Commerciale.
- Alt! - gli dissero, - scaricare tutto; subito!
" Ci siamo! " si disse Marcovaldo e già si vedeva licenziato.
- Presto! Bisogna sostituire i pacchi! - dissero i Capiufficio. - L'Unione Incremento Vendite Natalizie ha aperto una campagna per il lancio del Regalo Distruttivo!
- Cosi tutt'a un tratto... - commentò uno di loro. Avrebbero potuto pensarci prima...
- È stata una scoperta improvvisa del presidente, - spiegò un altro. - Pare che il suo bambino abbia ricevuto degli articoli-regalo modernissimi, credo giapponesi, e per la prima volta lo si è visto divertirsi...
- Quel che più conta, - aggiunse il terzo, - è che il Regalo Distruttivo serve a distruggere articoli d'ogni genere: quel che ci vuole per accelerare il ritmo dei consumi e ridare vivacità al mercato... Tutto in un tempo brevissimo e alla portata d'un bambino... Il presidente dell'Unione ha visto aprirsi un nuovo orizzonte, è ai sette cieli dell'entusiasmo...
- Ma questo bambino, - chiese Marcovaldo con un filo di voce, - ha distrutto veramente molta roba?
- Fare un calcolo, sia pur approssimativo, è difficile, dato che la casa è incendiata...
Marcovaldo tornò nella via illuminata come fosse notte, affollata di mamme e bambini e zii e nonni e pacchi e palloni e cavalli a dondolo e alberi di Natale e Babbi Natale e polli e tacchini e panettoni e bottiglie e zampognari e spazzacamini e venditrici di caldarroste che facevano saltare padellate di castagne sul tondo fornello nero ardente.
E la città sembrava più piccola, raccolta in un'ampolla luminosa, sepolta nel cuore buio d'un bosco, tra i tronchi centenari dei castagni e un infinito manto di neve. Da qualche parte del buio s'udiva l'ululo del lupo; i leprotti avevano una tana sepolta nella neve, nella calda terra rossa sotto uno strato di ricci di castagna.
Usci un leprotto, bianco, sulla neve, mosse le orecchie, corse sotto la luna, ma era bianco e non lo si vedeva, come se non ci fosse. Solo le zampette lasciavano un'impronta leggera sulla neve, come foglioline di trifoglio. Neanche il lupo si vedeva, perché era nero e stava nel buio nero del bosco. Solo se apriva la bocca, si vedevano i denti bianchi e aguzzi.
C'era una linea in cui finiva il bosco tutto nero e cominciava la neve tutta bianca. Il leprotto correva di qua ed il lupo di là.
Il lupo vedeva sulla neve le impronte del leprotto e le inseguiva, ma tenendosi sempre sul nero, per non essere visto. Nel punto in cui le impronte si fermavano doveva esserci il leprotto, e il lupo usci dal nero, spalancò la gola rossa e i denti aguzzi, e morse il vento.
Il leprotto era poco più in là, invisibile; si strofinò un orecchio con una zampa, e scappò saltando.
È qua? È là? no, è un po' più in là?
Si vedeva solo la distesa di neve bianca come questa pagina.

Italo Calvino 

venerdì 11 dicembre 2015

Sogno di Natale (Luigi Pirandello)



Sentivo da un pezzo sul capo inchinato tra le braccia come l'impressione d'una mano lieve, in atto tra di carezza e di protezione. Ma l'anima mia era lontana, errante pei luoghi veduti fin dalla fanciullezza, dei quali mi spirava ancor dentro il sentimento, non tanto però che bastasse al bisogno che provavo di rivivere, fors'anche per un minuto, la vita come immaginavo si dovesse in quel punto svolgere in essi.

Era festa dovunque: in ogni chiesa, in ogni casa: intorno al ceppo, lassù; innanzi a un Presepe, laggiù; noti volti tra ignoti riuniti in lieta cena; eran canti sacri, suoni di zampogne, gridi di fanciulli esultanti, contese di giocatori... E le vie delle città grandi e piccole, dei villaggi, dei borghi alpestri o marini, eran deserte nella rigida notte. E mi pareva di andar frettoloso per quelle vie, da questa casa a quella, per godere della raccolta festa degli altri; mi trattenevo un poco in ognuna, poi auguravo:

- Buon Natale - e sparivo...

Ero già entrato così, inavvertitamente, nel sonno e sognavo. E nel sogno, per quelle vie deserte, mi parve a un tratto d'incontrar Gesù errante in quella stessa notte, in cui il mondo per uso festeggia ancora il suo natale. Egli andava quasi furtivo, pallido, raccolto in sé, con una mano chiusa sul mento e gli occhi profondi e chiari intenti nel vuoto: pareva pieno d'un cordoglio intenso, in preda a una tristezza infinita.

Mi misi per la stessa via; ma a poco a poco l'immagine di lui m'attrasse così, da assorbirmi in sé; e allora mi parve di far con lui una persona sola. A un certo punto però ebbi sgomento della leggerezza con cui erravo per quelle vie, quasi sorvolando, e istintivamente m'arrestai. Subito allora Gesù si sdoppiò da me, e proseguì da solo anche più leggero di prima, quasi una piuma spinta da un soffio; ed io, rimasto per terra come una macchia nera, divenni la sua ombra e lo seguii.

Sparirono a un tratto le vie della città: Gesù, come un fantasma bianco splendente d'una luce interiore, sorvolava su un'alta siepe di rovi, che s'allungava dritta infinitamente, in mezzo a una nera, sterminata pianura. E dietro, su la siepe, egli si portava agevolmente me disteso per lungo quant'egli era alto, via via tra le spine che mi trapungevano tutto, pur senza darmi uno strappo.
Dall'irta siepe saltai alla fine per poco su la morbida sabbia d'una stretta spiaggia: innanzi era il mare; e, su le nere acque palpitanti, una via luminosa, che correva restringendosi fino a un punto nell'immenso arco dell'orizzonte. Si mise Gesù per quella via tracciata dal riflesso lunare, e io dietro a lui, come un barchetto nero tra i guizzi di luce su le acque gelide.
A un tratto, la luce interiore di Gesù si spense: traversavamo di nuovo le vie deserte d'una grande città. Egli adesso a quando a quando sostava a origliare alle porte delle case più umili, ove il Natale, non per sincera divozione, ma per manco di denari non dava pretesto a gozzoviglie.

- Non dormono... - mormorava Gesù, e sorprendendo alcune rauche parole d'odio e d'invidia pronunziate nell'interno, si stringeva in sé come per acuto spasimo, e mentre l'impronta delle unghie restavagli sul dorso delle pure mani intrecciate, gemeva: - Anche per costoro io son morto...

Andammo così, fermandoci di tanto in tanto, per un lungo tratto, finché Gesù innanzi a una chiesa, rivolto a me, ch'ero la sua ombra per terra, non mi disse:

- Alzati, e accoglimi in te. Voglio entrare in questa chiesa e vedere.

Era una chiesa magnifica, un'immensa basilica a tre navate, ricca di splendidi marmi e d'oro alla volta, piena d'una turba di fedeli intenti alla funzione, che si rappresentava su l'altar maggiore pomposamente parato, con gli officianti tra una nuvola d'incenso. Al caldo lume dei cento candelieri d'argento splendevano a ogni gesto le brusche d'oro delle pianete tra la spuma dei preziosi merletti del mensale.

- E per costoro - disse Gesù entro di me - sarei contento, se per la prima volta io nascessi veramente questa notte.

Uscimmo dalla chiesa, e Gesù, ritornato innanzi a me come prima posandomi una mano sul petto riprese:

- Cerco un'anima, in cui rivivere. Tu vedi ch'ìo son morto per questo mondo, che pure ha il coraggio di festeggiare ancora la notte della mia nascita. Non sarebbe forse troppo angusta per me l'anima tua, se non fosse ingombra di tante cose, che dovresti buttar via. Otterresti da me cento volte quel che perderai, seguendomi e abbandonando quel che falsamente stimi necessario a te e ai tuoi: questa città, i tuoi sogni, i comodi con cui invano cerchi allettare il tuo stolto soffrire per il mondo... Cerco un'anima, in cui rivivere: potrebbe esser la tua come quella d'ogn'altro di buona volontà.

- La città, Gesù? - io risposi sgomento. - E la casa e i miei cari e i miei sogni?
- Otterresti da me cento volte quel che perderai – ripeté Egli levando la mano dal mio petto e guardandomi fisso con quegli occhi profondi e chiari.
- Ah! io non posso, Gesù... - feci, dopo un momento di perplessità, vergognoso e avvilito, lasciandomi cader le braccia sulla persona.

Come se la mano, di cui sentivo in principio del sogno l'impressione sul mio capo inchinato, m'avesse dato una forte spinta contro il duro legno del tavolino, mi destai in quella di balzo, stropicciandomi la fronte indolenzita. E qui, è qui, Gesù, il mio tormento! Qui, senza requie e senza posa, debbo da mane a sera rompermi la testa.

(Racconto di Natale di Luigi Pirandello)

giovedì 10 dicembre 2015

Di una donna perduta









Di chi è la maschera

dentro la quale mi sento svanire

quale volto

oggi

m'appartiene

quale caldo riflesso del viso

-

Di quando in meraviglia

si stupirono le cose

o quando fra di esse

mi scoprii persa

-

Vorrei sparire alle case

agli uomini e alle chiese

crollare sull'acqua dei fossi

come le tremule immagini riflesse

che della realtà

conservano il pallore

perché necessita di purezza

il sorriso

d'una donna perduta

lunedì 30 novembre 2015

Vi svegliate un giorno e non avete piú parole per dire «giorno».



"IL LIBRAIO DI SELINUNTE" di Roberto Vecchioni
(Einaudi 2014)




L’eternità della parola


di Katya Maugeri

“La mia città non si chiama Selinunte, anzi, non si chiama proprio.
Si chiamava cosi una volta, quando alle cose corrispondevano nomi.
Oggi qui non si comunica più a parole, ma a codici; a volte semplici, a volte complessi, fatti di segni mischiati a segni.”.

Un libraio che leggeva i libri, non li vendeva. Li leggeva e basta. Una canzone sublime che incanta, una canzone che diventa racconto.
È “Il libraio di Selinunte” e a raccontare di lui è Roberto Vecchioni.
Un autore che affascina e che regala emozioni senza tempo, in questo racconto narra la storia di Nicolino, un ragazzo che passa le sue notti ad ascoltare leggere un libraio, non un venditore di libri, ma un lettore di parole,“ l’uomo più brutto che avessi mai visto. Piccolo, storto, vestiva un doppiopetto a righe grigie e nere molto più grande di lui… ”. Il ragazzo è l’unico ad ascoltare le storie lette dal libraio, che viene malvisto dagli altri abitanti del luogo.
L’uomo giunse a Selinunte, con i suoi innumerevoli libri da leggere, con la missione di trasmettere l’importanza della cultura, l’incanto della parola, “educando” gli abitanti alla lettura dei classici. Dopo gli iniziali momenti di curiosità, gli abitanti allontanarono il libraio ritenendolo quasi una presenza demoniaca, ed è in quest’ambientazione surrealistica che Nicolino attraverso un flash-back racconta la storia, al tempo della sua infanzia. Incurante del divieto dei genitori frequenta, ogni notte, la bottega del librario. Ogni sera, infatti, il giovane fa coricare al suo posto lo zio, rifugiandosi nelle letture incantevoli del libraio. Le parole pronunciate dall’uomo si trasformano in sigilli impressi nell’anima del ragazzo, parole che alimentano in lui l’amore per il sapere. Un racconto che mostra come potrebbe diventare una società se i libri andassero perduti, tutto questo mettendo in rilievo i grandissimi autori della letteratura: Shakespeare, Saffo, Manzoni, Leopardi, Pessoa, Catullo, Sofocle, Tolstoj. Una sera, il ragazzo sente il libraio esclamare: “E questa è l’ultima volta, Nicolino”. Da quella sera, l’evoluzione di eventi improvvisi, trascineranno il paese in un vortice senza ritorno: gli abitanti – come in un incantesimo – saranno circondati da parole prive di significato, vuote, aride, asettiche. Tutto apparirà piatto e privo di sentimenti, privo di comunicazione. Nicolino, l’unico a possedere “l’essenza” della parola, deciderà di raccontare a Petunia – sua amata alla quale non riesce a comunicare l’amore che prova per lei – i brani letti dal libraio, “Io amo Primula. Non posso parlare con lei, e sento questa mancanza come uno strappo, un dolore senza fine. Non mi bastano e non le bastano i gesti, le carezze, gli sguardi: tutto ciò è di una dolcezza animale che riempie solo una minima parte dello spazio comune: come un continuo rispondere senza domande. Come se per dipingere avessi tutto tranne i colori”.

Una storia che narra dell’essenza e dell’importanza delle parole e delle sfumature nascoste in ogni termine scelto nel linguaggio comune. Le parole usate con inerzia e quelle racchiuse nei libri (quelle preziose, autentiche, magiche). Le parole non possono dissolversi, non spariscono nell’oblio.
Chi sa realmente ascoltarle, possederle, custodirle, le mantiene vive nel tempo rendendole eterne.
In un’epoca in cui l’importanza della parola è totalmente trascurata, in cui la comunicazione avviene in maniera meccanica e priva di enfasi, di emozione, di trasporto, questo racconto riesce a far emergere quel valore che troppo spesso diamo per scontato trascurando i dettagli e l’importanza dei termini con i quali descriviamo tutto ciò che caratterizza la nostra vita. Come sarebbe il mondo senza la parola? Senza cultura? Senza libri? Un mondo silenzioso e privo di sussulti.
Proprio come gli abitanti di Selinunte, temiamo il confronto con il diverso cercando di annullarlo per timore di essere invasi dalla diversità. È così che viviamo, con paura e terrore; ma nell’atto di allontanarlo e distruggerlo, gli abitanti, perdono le parole diventando incapaci di comunicare, si ritrovano appunto – senza parole. Nulla può essere espresso. Nemmeno i sentimenti.
Un inno alla conoscenza, alla cultura, alla voglia di conoscere per sentirsi liberi. Liberi di esprimere, di trovare le parole giuste da attribuire a uno stato d’animo… cose che gli abitanti di Selinunte perdono, vivendo nell’incapacità di esprimere le proprie emozioni, di comprendere lo stato d’animo altrui, costretti a comunicare a gesti, fraintendendosi. Un testo attuale che inevitabilmente conduce alla nostra epoca, in una società che tende a questa perdita, oggi che il linguaggio è racchiuso in simboli, in “emotion” che sostituiscono le parole, pensieri espressi attraverso abbreviazioni difficili da interpretare. Si è perso l’entusiasmo di usare la parola corretta, scegliendo il termine adeguato capace di trasmettere un’emozione. Siamo stanchi e sempre di corsa, non abbiamo più il tempo necessario da dedicare alla parola. Viviamo proprio come in quel villaggio descritto da Vecchioni, in cui si cerca di utilizzare i gesti, ma – ahimè – siamo soggetti a fraintendimenti che allontano sempre più l’emozione dai gesti compiuti. Un vocabolario sempre più scarno, quello utilizzato nell’epoca in cui viviamo; povero di termini forbiti, ricco di termini coniati da “guru” del momento.
Roberto Vecchioni con uno stile incantevole, forbito, scorrevole, emoziona il lettore attraverso un viaggio all’interno dei classici della letteratura riuscendo a trasmettere un messaggio che tocca l’anima: “La favola è fuori di qui, la favola è nel nostro strazio quotidiano, nella nostra incapacità di far corrispondere quel che diciamo a quel che sentiamo”.
Un libro che non dimenticherete facilmente, vi sembrerà di ascoltare il libraio leggere per voi brani che custodirete come delle perle preziose.


“I venti non si sa mai quando arrivano, come arrivano. Sono improvvisi e inspiegabili come i moti del cuore. Un istante prima sei calmo, sei sereno ed ecco che ti senti addosso un’agitazione, una frenesia… i venti cambiano cose che eran lì immutate da sempre: spiagge, boschi, ghiacciai. Abbiamo forse anche noi dei venti nel cuore? Qualcosa che quando arriva è più forte di tutti e non vuol sentire ragioni? È così, pensai, che si diventa pazzi? È così che appare di schianto una verità che non conoscevi e non volevi conoscere?”



mercoledì 25 novembre 2015

Di certi giorni e visi



Posso leggere
di certe notti e storie
di certi giorni e visi
posso vedere ad occhi chiusi
e persino usare/osare
parole d'amore

Lontano qualcuno le canta
ne sceglie la rima a modo di poeta

Posso ricambiare sorrisi
e ritrarmi
(fingendomi seccata)
ad ogni bacio

Posso camminare
in notti come questa
e persino ricordare
l'immensità di una notte come questa
e sentire la notte
come quella notte
farsi immensa
tra stelle filanti in sdoppiati firmamenti
e cercare con il cuore
posso
persino cercare con il cuore
posso



lunedì 16 novembre 2015

Parigi




Non lontano dal Bataclan, gli imam pregano in ricordo delle vittime degli attentanti di venerdì 13 insieme ad alcuni esponenti della comunità ebraica tra i quali lo scrittore Marek Halter. I rappresentanti della delegazione hanno intonato insieme la Marsigliese. Tra i presenti anche Hassen Chalghoumi, presidente della Conferenza degli imam di Francia e imam di Drancy.

 "In tutte le religioni non si può uccidere in nome di Dio, vale per tutte le religioni - così Marek Halter - è per questo che siamo qui, per far vedere che la Francia non è solo una faccia, ma 67 milioni di facce e può restare unita''

(da la Repubblica.it)

Per me Parigi, è negli occhi di tutti noi feriti e morti con i morti e i feriti di venerdì, ed è negli occhi bassi di tutti gli islamici che incontro per strada e che si portano dentro il dolore di uno scempio fatto in nome del loro dio. Questo per me è Parigi, adesso. 

giovedì 29 ottobre 2015

Ringraziamento - da Vista con granello di sabbia - DI Wislawa Szymborska


Oggi, ho riletto questa poesia. Ricordo che la prima volta che la lessi pensai - "Sì,  vero. Ma l'amore ..."
Oggi rileggendola dopo un po' di anni, ho pensato -" Sì, vero! Mah ... l'amore."

Un sorriso Anto


RINGRAZIAMENTO

Devo molto
a quelli che non amo.
Il sollievo con cui accetto
che siano più vicini a un altro.

La gioia di non essere io
il lupo dei loro agnelli.

Mi sento in pace con loro
e in libertà con loro,
e questo l'amore non può darlo,
nè riesce a toglierlo.

Non li aspetto
dalla porta alla finestra.
Paziente
quasi come un orologio solare,
capisco
ciò che l'amore non capisce,
perdono
ciò che l'amore non perdonerebbe mai.

Da un incontro a una lettera
passa non un'eternità,
ma solo qualche giorno o settimana.

I viaggi con loro vanno sempre bene,
i concerti sono ascoltati fino in fondo,
le cattedrali visitate,
i paesaggi nitidi.

E quando ci separano
sette monti e fiumi,
sono monti e fiumi
che si trovano in ogni atlante.

E' merito loro
se vivo in tre dimensioni,
in uno spazio non lirico e non retorico,
con un orizzonte vero, perchè mobile.

Loro stessi non sanno
quanto portano nelle mani vuote.

Non devo loro nulla
direbbe l'amore
su questa questione aperta.




Wislawa Szymborska


sabato 24 ottobre 2015

Impermanenza


Impermanenza


Niente rimane uguale per due momenti consecutivi. Eraclito sosteneva che non possiamo mai bagnarci due volte nello stesso fiume. Confucio, osservando la corrente, disse: "Scorre incessantemente, giorno e notte". Il Budda ci ha esortato a non limitarci a parlare dell'impermanenza, ma ad usarla come strumento per aiutarci a penetrare profondamente nella realtà e ottenere una visione interiore liberatoria. Potremmo essere tentati di dire che la sofferenza esiste perché le cose sono impermanenti.

Ma il Budda ci ha incoraggiato a dare un ulteriore sguardo. Senza l'impermanenza la vita non sarebbe possibile. Come potremmo trasformare le nostre sofferenze se le cose non fossero mutevoli? Come potrebbe tua figlia trasformarsi in una splendida, giovane donna? Come potrebbero migliorare le condizioni del mondo? Abbiamo bisogno della mutevolezza perché ci sia giustizia sociale e speranza.


Se tu soffri, non è perché le cose sono impermanenti. Soffri perché credi che le cose siano durevoli. Se muore un fiore, tu non soffri molto, perché capisci che i fiori sono impermanenti, ma non riesci ad accettare l'impermanenza della tua amata, e soffri profondamente quando lei ti lascia.

Se guardi a fondo dentro all'impermanenza, farai del tuo meglio per renderla felice proprio ora, in questo momento. Consapevole dell'impermanenza, diventi positivo, amorevole e saggio. Impermanenza significa "buone nuove". Senza impermanenza, nulla sarebbe possibile. Con l'impermanenza, ogni porta è lasciata aperta per il cambiamento.

L'impermanenza è uno strumento per la nostra liberazione.





(Thich Nhat Hanh)

venerdì 16 ottobre 2015

Poco poco



Mi si è piegato il lato sinistro dell'anima

ha ceduto al capoverso

lasciando pendere

un lembo sanguinolento

dalla sua treccia

dorata


Poco poco

niente più che un velo

di tulle Illusion o Grenadine

coperto all'uopo

con morbido velluto


Un ratto repentino

come un cambio di voce

da squillante

a fioca


senza che il senso

del verso

m'incalzasse al riso

(assai sgradevole e sguaiato)

dell'infermiera di turno

martedì 22 settembre 2015

Intenti

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Agli umani non resta che una vita sola

al poeta l'argento d'infinite stelle







Una precipite acqua

che s'inabissa

e che nel suo lento andare di fiume

non giunge mai alla foce

Giorni






Lascio che sia
come un cero
questo mio consumarmi
dove restare
è attesa
di giorni che più e più
si fan mancanza
(come la poesia d'Antonia che si dona
a chi si cerca con occhi di pianto)

Così ch'io sia una radura deserta
un altopiano bianco alla tua voce
che disegna nuovi pendii
nuovi fioriti giardini

Così ch'io sia la coda
o l'occhio del cane
che va libero
per una segreta linea
e che nome non ha più
per nessuno

sabato 12 settembre 2015

De quoi écrire?


E' così che s'inscena il mito

nel teatro delle nostre mancanze
sedimentate
nel vuoto profondo

- inesorabile appassire -


[men che meno l'assonanza perfetta

di corrispondenze inconsce]


dato che siamo immaginifici creatori

simili ad un dio innamorato

per il mentre che la creatura

resta indefinibile ed oscura



" Sillabe di seta e scarpa snella
sfoggia l'ape traditrice,
alla bellezza più recente
offre sempre i suoi servigi

Corteggia a caso
promette fede
durevole come la brezza
annuncia nozze perpetue
perpetuamente divorzia."

L'attenta osservatrice di Amherst

mercoledì 19 agosto 2015

Riflessione





Giro il verso del mattino


a Nord


dove è più fresca l'aria


e la luce più sottile


calma il respiro






L'impensabile


è un evento imperfetto


che accade quando non vorresti


nel mentre che il coraggio


t'ha dischiuso piano


il sorriso


d'improvviso


la solitudine


che credevi sconfitta


nuovamente t'accoglie






e lo sconfinato


si fa desolazione


e agli occhi bruciano le memorie


mentre ti sfianca


il buio abissale


che sorge dal basso orizzonte


degli eventi

venerdì 14 agosto 2015



Pitri nuostë, chi ssì 'ntu cieghë,


da jessë sintificàtë 'u nomë tujë.


Da venì 'u regnë tujë,


da jessë fattë 'a vilentata tujë.

Comë 'ntu cieghë, chissì 'nta terrë,

mi si ja dà a nuojë goj ë'u pan i tutt'i jurnë.

E mintë tavòtë a nuojë i diebbitë nuostë

comë nuojë i mintiemë tavòtë agli debitori nuostë.

E no mmi si portà a tentazionë,

ma mi si ja liberà d'u malë.

Amèn.

giovedì 13 agosto 2015

Finestra d'Agosto



Al di là dei vetri
un pianto
annodato alla gola
invano
chiede al silenzio
il dono di un suono
che non fosse lamento

Un pianto 
che mi tende la mano
e muovendo le dita
m'attrae

Cedo alla malinconia
dei paesaggi e ai vocalizzi
dei piccoli uccelli rapaci
che tra le rovine
il vento trattiene
auspicando il nostro ritorno

e cedo agli alberi

alle loro cime
intente a sfiorare
l'immenso del vuoto
oltre ogni plausibile luce stellare

mercoledì 5 agosto 2015

CONFESSIONE DI ALONSO CHISCIANO

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Giro nel mio deserto e stò tranquillo
ho solo il vento per barriera
Ah, che cavaliere triste
in realtà avevo dato il cuore
alla luna
e la luna l'ho barattata col temporale
e il temporale con un tempo ancor meno normale
e il tempo stesso con una spada
che mi accompagnasse
fuori dei confini di quello che è reale.

E più mi accorgo di amare l'ignota destinazione
più lungo sterpi e rovesci
non ritorno.

A me, a me, a me
una pazzia d'argento
al mio cavallo una pazzia di biada

Ah, come hai potuto pensare
di cambiarci la strada
che se la morte è soltanto un mare
vedi, mi ci tuffo vestito

Ahi, polvere delle mie strade
ah, scintille del mio mare inaridito
come hai potuto pensare
di spogliarmi proprio adesso
giro nel mio deserto e fa lo stesso

Per non scalfire il tuo senso morale
ma dentro
caro il mio ingegnoso narratore, dentro,
dentro è tutto un altro carnevale

Mi porto dietro latta, legni
l'antico arsenale
carambole di fantasmi io conservo
conservo pezzi di temporale
le chiacchiere sul mercato
che vergogna, che spavento
la normalità eterna

Risvegliarmi un'altra volta senza fiato
fra il pianto scemo del barbiere
e il sudore muto del curato
io qui vedo l'orizzonte
e faccio finta di accettare
le predizioni della scimmia che indovina
Io, tirar di scherma con la grandine, le dame.

Ah, che compagnie infelici
cavalieri di specchi, minestre di radici
dormo nella follia
e tutto il teatro con me

Ma senti che odore di carta e incenso
da una parte ti dico grazie
e dall'altra continuo
solo e senza corpo a scornarmi con il vento.









martedì 4 agosto 2015

la città amara ( a Matera)











La città amara
è quieta
[quieta è dir poco]
tace
par morta
mentre l'ultima luce
s'accende e rimesta
in un tempo felice

Ho scavato
le dita intrecciate
tra i rovi di tufo

Un regalo
alla vita

venerdì 17 luglio 2015

Il poeta è un fingitore


Il poeta è un fingitore.

Finge così completamente

che arriva a fingere che è dolore

il dolore che davvero sente.


E quanti leggono ciò che scrive,

nel dolore letto sentono proprio

non i due che egli ha provato,

ma solo quello che essi non hanno.


E così sui binari in tondo

gira, illudendo la ragione,

questo trenino a molla

che si chiama cuore.

martedì 14 luglio 2015








Se desideri vedere le valli, sali sulla cima della montagna, se vuoi vedere la cima della montagna, sollevati fin sopra la nuvola, ma se cerchi di capire la nuvola, chiudi gli occhi e pensa 

"Kalil Gibran"

sabato 11 luglio 2015

Intruglio fumoso




Non è caffè

ma l'aria nera della notte

che in quest'alba

- mentre la creazione

tutta

per un istante sospesa

trattiene il respiro -

bevo

nella mia tazzina



Osservo la realtà

in quell'intruglio fumoso

confondersi col sogno

e fondersi

per quell'istante

tra tenebra e  luce

e nulla più mi pare

in aritmia

Intuisco
(e subisco)
come in una sorta di malia
che il vero e il falso
la tenebra e la luce
sono un tutt'uno  perfetto
e in armonia

Il giorno poi
mi astrae
ed estrae dal buio
le cose della vita
e si  porta  con sé
il mio ultimo sorso
d'aria scura









mercoledì 8 luglio 2015

Fluire



Scrivo
come se avessi chimere
oltre le dita graffiate d'allegria
come
se oltre la malinconia
ci fossero segni pregni
di lasciti d'autore
come se i deboli sentori di precaria felicità
lasciassero la penna correre
al pensiero vorace
di sentirmi anch'io capace

Timidamente
- come la consuetudine che è casta -

levito
spingendomi
oltre ciò che rimane
oltre gli annosi affacci terreni
(che hanno porte chiuse
e finestre così alte
da non vedere che il cielo)

tra la solitudine mia amica

Timida
come la castità stessa
che al buio si mostra vestita
per la natura del rossore
per il silenzio che spaventa
(per l'incapacità ad amare altrove)

per quella vita che chissà come
ebbi vissuta
mi prendo il piacere dei tuoi occhi
e nel risveglio solitario
della notte in disparte
ritornerò a fluire
come in una sconosciuta gioia
come in un corpo non più
soltanto mio

domenica 24 maggio 2015

Eristica- Il Talismano






Per un sofisma
ho perso la saggezza
povera mia vita
che il cielo prodigo
m'aveva data

Ridotta è adesso
al vello nero
dell'ispida creatura
che per avventura
ho scorto
ai margini d'un greto
scevro di limpidi specchi
e rovinoso di pietraie aguzze

D'invenzioni mi salvo
e per fallacia di consistenza
reco con me
come un talismano appeso
il tuo sorriso
che svetta al di là
delle precarie cose
e s'innalza come
diafana creatura

domenica 10 maggio 2015

L'Arte della scrittura di Lu Ji: verità e saggezza dei grandi maestri (tratto da EPOCHTIMES)



L’Arte della Scrittura di Lu Ji, conosciuto anche con il titolo Wen Fu è il capolavoro dello scrittore cinese vissuto nel terzo secolo d.C. Nell'opera la letteratura è espressione della verità, legata allo studio dell’origine e degli antenati, che può non solo essere trasmessa attraverso le parole scritte, ma anche utilizzando le parole della musica, pittura, danza e teatro.

Wen, comprende il significato di arte anche se secondo in cinese, secondo il poeta e traduttore Sam Hamill, aveva un significato molto più ampio nel passato, che va dall'arte alla letteratura al figurativo, come espressione integrale.

Nello scenario di Lu Ji, lo scrittore è al centro dell'Universo e si nutre con le opere del passato, quelle che lui definisce i tesori dai quali nascono forma e contenuto per le nuove opere.

Il poeta sta al centro di un Universo, contempla l’enigma

e trae nutrimento dei capolavori del passato

Lu Ji parla del primo impulso prima di scrivere, che arriva dopo aver imparato a recitare questi classici e a cantare con la chiara virtù degli antichi maestri.

Quando studio le opere dei maestri osservo l’operare della loro mente

Certo, una lingua efficace e una parola carica di energia

Lo scrittore cinese raccomanda di ascoltare il sé interiore, la mente e lo spirito, che corre agli otto angoli dell’universo.

Soltanto allora la voce interiore può farsi chiara

mentre gli oggetti divengono numinosi

Travassiamo l’essenza delle parole insaporendone la dolcezza

é come andare alla deriva di un lago celestiale

e immergersi nelle profondità marine

Ne riportiamo parole vive

Per Lu Ji le parole non solo erano vive, ma avevano una immagine: si dovevano cercare tra quelle che non erano raccolte dalle generazione precedenti.

Lo studio delle opere classiche era molto importante nella formazione accademica cinese. Per ottenere un posto a corte ci si doveva sottoporre a severi esami. Con il passare del tempo i requisiti per le generazioni seguenti calarono.

Ad esempio, nella poesia, gli antichi studiosi cinesi imparavano a rimare in difficili combinazioni per esaltare le parole con un suono perfetto, che doveva, secondo Lu Ji, raggiugere l'anima di chi ascoltava. Invece nelle generazioni successive una volta che si è persa l'abitudine dello studio, i poeti utilizarono una prosa irregolare. Anche lo stesso Lu Ji scriveva poesie in prosa.

Quando intaglia un manico d’ascia con un’ascia

certo il modello è a portata di mano

Lu Ji inoltre ha sottolineato nell’Arte della Scrittura che il linguaggio deve essere efficace per avere un effetto reale sul lettore.

Ogni scelta è fatta con cura, dettata dal censo della misura

I pensieri scuri vengono offerti alla luce della ragione

Nel suo libro ha dato una serie di indicazioni per trasportare il lettore nel viaggio attraverso la scrittura. Il viaggio della scrittura può essere a volte facile e scorrevole, a volte arduo e faticoso, ma il consiglio dello scrittore cinese è di dire sempre la verità.

La verità è il tronco del’albero

lo stile dà un bel fogliame.

Emozione e ragione non sono due, occorre leggere ogni sfumatura del sentire.

L'autore spiega come in un piccolo angolo di un brano, si può trovare uno spazio infinito con un diluvio di parole vive, che possono illustrare il fondo della questione da trattare.

Dal non essere nasce un essere;

dal silenzio lo scrittore genera una canzone

Nel terzo secolo vi erano differenze di forma tra lo scritto, la lirica, la prosa, le elegie, i poemi mnemonici, il trattato, i memoriali e la dissertazione.

Benché ogni forma sia diversa, tutti si oppongono al male: nessuna offre licenza allo scrittore

Lu Ji stimava lo scrittore in grado di cogliere l’arte di intrecciare i suoni per trovare una lingua bella, vera e armoniosa.

Lo scrittore era poeta e anche un soldato, per tanto sapeva dare importanza nel rivedere quanto scritto.

Solo quando la revisione è precisa la costruzione regge solida e a piombo.

Nel suo libro parla di come essere originali e raggiungere una giusta forma, prima di arrivare al capolavoro e al terrore che può sorgere una volta compiuto.

La composizione deve commuovere il cuore come la musica di uno strumento multicorde

Non esistono idee nuove, soltanto idee in cui riecheggiano i classici

I cinque criteri dell’Arte della Scrittura sono la musica a buon ritmo, la quale deve avere armonia e portare una vera emozione che non fallisca nella sua missione. Deve avere anche una giusta misura ed essere fatta con una cura particolare.

Il falso musicista suona più forte per nascondere le imperfezioni.

I falsi sentimenti sono come uno schiaffo in pieno volto alla grazia...

...Lo scrittore offre la fragranza dei fiori freschi

un'abbondanza di germogli che sboccia.

(Dal libro L’Arte della Scrittura di Lu Ji editore Ugo Guanda, Parma (2002), con la traduzione di Anna Rusconi 8ISBN 88-8246-477-6 prima traduzione di Sam Hamill)

(questo è l'arcano)




Un vuoto improvviso
che trasale
come quando dormi e credi di cadere

Un rosso intenso
che colora
ad occhi chiusi
una musica vibrante

E' paura
o forse un'altra forma estranea
e più sottile
a cui si accorda
ogni mio tono

(questo è l'arcano)

Un rapido passaggio
tra i pensieri
d'un ombra
- l'esatto disconosciuto -
senza forma
sospeso
per un tempo eterno

Il dubbio
poi di cosa sia reale...
il sogno
in cui mi vedo vivere e morire
(e che mi sembra vero)
o il vero che allontano
come un sogno malriuscito...

lunedì 4 maggio 2015

Il leccio










C'è un vecchio Leccio
che pare morto
piegato sulla ritta
che dalla chiesa porta alla collina

Piegato
dalla vecchiezza saggia del tempo
morto
dalla furia giovanile
del vento

Dai rami
pudiche foglie
occhieggiano virginali
inchinandosi alla terra

Una luce
quasi solare
frugando in quell'ammasso
ridicolo e confuso
pietosa le colora

...per quelle anime verdi
anelanti l'azzurro
solo la pioggia
sazia d'acqua
gli spazi fra i sassi
e lì
rispecchia il cielo che le illude

domenica 12 aprile 2015

Tratto da: EPOCH TIMES




Quando incontro una persona nuova e inizio una conversazione amichevole, spiego: «Collaboro alla gestione di un sito di poesia». Poi, mi capita di osservare un fenomeno comune: vedo gli occhi della nuova conoscenza perdere subito lo sguardo consapevole e arguto per passare a uno vitreo e impassibile, riassumibile come disinteresse.

Questo fenomeno sembra abbastanza logico, data la caleidoscopica gamma degli apparenti migliori modi di trasmettere le idee con parole e immagini, come ad esempio video online, social media, film, notiziari e articoli di riviste, racconti brevi, romanzi e fumetti. Con questa vasta gamma di scelte, cosa può offrire la poesia e perché la gente oggi dovrebbe leggerla? La poesia non è forse da sempre considerata obsoleta?

La mia risposta: assolutamente no! Per farla breve, la poesia può rendere la tua vita fantastica, bellissima e stupenda in modo più completo e efficacie di tutte le cose appena citate. «Come può essere?» , potreste chiedere, «La poesia è più lenta, coinvolge meno sensi, spesso usa conoscenze e linguaggi incomprensibili e fornisce uno sguardo ristretto sui sentimenti di una sola persona». Inizierò dalle prime due questioni.

L’avversione alla poesia, la sensazione di lentezza e di privazione sensoriale che sembra indurre, sono esattamente i sintomi della malattia del nostro mondo moderno, dove la curva d’attenzione e i sensi sono costantemente diminuiti da pressioni artificiali e commerciali per essere più stimolanti ed eccitanti durante le nostre conversazioni. Persino i film di dieci o venti anni fa possono sembrare noiosi e insoddisfacenti, se paragonati agli ultimi film di successo dal ritmo sostenuto.

Tuttavia, se riuscite a costringervi a rallentare, a calmare la vostra mente e a leggere sul serio una poesia, allora la vostra coscienza guadagnerà quello che malvolentieri ha perso. Il processo è una trasformazione sottile e non consapevole, che non si può quantificare facilmente (tuttavia sfiderei gli scienziati sociali a provarci).

Basta dare uno sguardo alle durature opere di Jane Austen, scrittrice inglese dell’inizio del XIX secolo. Cos’è che ci affascina e incanta dei suoi romanzi romantici? Dal mio punto di vista, uno strato di civiltà e un senso del giusto ricopre tutti i suoi lavori, tanto che, come nel caso di Orgoglio e Pregiudizio, un uomo può parlare con una donna a lungo e in molte occasioni e ancora non essere sicuro se lei prova qualcosa per lui, poiché entrambi mettono in pratica una serie di così elaborati rituali di gentilezza e umanità, come la società si aspetta da loro. Lui dovrebbe chiederle di sposarlo? Dovrebbe andarsene altrove? In entrambi i casi, sembra un’esperienza stupenda per tutte le parti coinvolte.

Tutti i personaggi, magnificamente resi, si comportano in base ai ruoli che la società ha assegnato loro ( con sporadiche deviazioni, che creano una piccola, ma appassionante, dissonanza). È un modo di vivere semplice e attraente. Attraente anche perché così realistico. Il mondo era così innegabilmente semplice prima dell’industrializzazione, quando veniva data più importanza alla natura, all’immaginazione e all’intuito. A chi non piacerebbe il mondo chiaro di Jane Austen senza lasciare il comfort delle televisioni e dei computer?

Perciò, dopo 200 anni, Jane Austen continua a instillare un senso di stupore e bellezza, che ha portato a un infinito susseguirsi di mini serie tv e film.[...]. Le sue opere non sono poesia e la poesia non è neanche uno dei temi principali, anche se sporadicamente di poesia si parla.

Nello sfondo delle sue opere è data per scontata la presenza di un’intensa parte della cultura. Al posto di attori e cantanti famosi, le super star dell’intrattenimento di quell’epoca erano i poeti romantici come Sir Walter Scott, William Wordsworth, Lord Byron, John Keats e Percy Bysshe Shelley.

Essere capaci di rallentare la propria mente e godersi la vera poesia significa entrare nell’affascinante e incantevole mentalità della Austen, molto più di quanto sia possibile fare leggendo i suoi libri o guardando gli adattamenti cinematografici. È entrare nella grandiosa ed elaborata opera che è l’umanità, e la società, per poi aprire immediatamente gli occhi e rendersi conto di essere su un palcoscenico immenso e di interpretare un ruolo scritto a posta e con benevolenza per noi.

Tornerò ora a parlare delle altre critiche, mosse alla poesia in generale, che ho elencato prima: «spesso utilizzano conoscenze e linguaggi incomprensibili, e fornisce uno sguardo ristretto su i sentimenti di una sola persona». Queste sono delle critiche valide e vere per quanto riguarda la poesia oggi. La maggior parte delle poesie oggi sono scritte come se volessero essere intenzionalmente difficili da capire e spesso non utilizzano nessun schema metrico, o di rime, standard.

Infatti, è soltanto prosa creativa presentata come poesia. Una poesia così astrusa e ora inflazionata non rispetta le tradizioni della poesia inglese, disposte da 1400 anni, che poggiano a loro volta sulle tradizioni greche e più recentemente su quelle cinesi, che risalgono a circa 3000 anni fa.

Questo è il motivo per cui la Society of Classical Poets, di cui io sono volontario, sta raccogliendo versi moderni che sembrano e si leggono come poesia. Sta resuscitando una poesia che sia chiara ed interessante per tutti, incluse le persone che non hanno frequentato le scuole superiori e quelle a cui non potrebbe importare di meno dell’analisi della letteratura moderna.

Questa autenticità è la vera sfida per i poeti di oggi e la Society of Classic Poets accetta questo confronto tra grazia e gusto. In breve, la vera poesia è un passatempo su cui vale la pena sintonizzarsi, e quello che viene presentato alla Society of Classical Poets è esattamente il tipo di poesia che so che apprezzerete!

Evan Mantyk è un professore di inglese di New York e presidente della Society of Classical Poets www.classicalpoets.org

Articolo in inglese: Why You Should Be Reading Poetry

SUHAIR SIBAI - Syrian Artist











sabato 11 aprile 2015

Parole perse



Caotica e virginale
come il respiro della tela
alla prima  pennellata
improvviso saliscendi
di pensieri senza meta

Parole interrotte
al primo gemito vitale
cedute
a nuove immacolate
tentazioni

Premeditazione perniciosa
di essere poesia
io stessa
rivestita e denudata
dal vostro venire e andare

Ammiccanti e sorgenti

svanite
a volte
tra cortine fumose
e cangianti trasparenze


Vi vorrei tutte
tutte voi perse
ritrovarvi come figlie
cresciute e viventi in altre vite
come nel verso d'altri Poeti

lunedì 16 febbraio 2015

Orione














Di tutti i luoghi
dei tanti luoghi
dove il cielo si rispecchia sulla terra

Di tutti i luoghi
fra i tanti luoghi
dove si è consumato
il rito delle dita
d'inchiostro
nell'intento di perpetrare
un ricordo



Scelgo quello
fra i tanti
più lontano

Quello che vagò
nelle soffuse linee del tempo
e che mise radici
nella mia testa


mentre  di Alnilam
madre delle tre stelle d'inverno
ti regalavo la luce

venerdì 16 gennaio 2015

tu con me a scegliere le stelle



riaffiorano i ricordi
e il mare ostinato
a riannodare
il loro lamento

abbandonata
come un molo
quando la gioia festante
dell'arrivo
se n'è andata
e resta solo l'acqua
sentina  di naufraghe domande
a sbattere
monotona

le gomene
verdi di muschio
hanno riccioli d'oro
e sembrano sirene
attratte
dall'andirivieni del mare
che le possiede

mare che bugiardo
come il tempo
come l'ora felice dell'approdo
ha inghiottito lo stupore
che di lontano
era faro
e illuminava al naufrago smarrito
nel suo intreccio amoroso
di corpi annodati
l'ora della bocca affamata
del morso ebbro
di desiderio

nella coppa di vetro
hai vissuto
fra le mie braccia a croce
nella terra feconda
della mia anima
nel fondo profondo
di tutti i mari
nelle ali spiegate degli uccelli
nel loro volo libero

eri sete
eri fame
della carne mia di donna
lo scopritore perso


giovedì 15 gennaio 2015

"L'amore al tempo del colera" film tratto dal libro di G.G. Marquez




Risultati immagini per amore al tempo del coler



Pubblicato nel 1985, L’amore ai tempi del colera è considerato il capolavoro dello scrittore colombiano Gabriel Garcia Marquez, premio Nobel per la Letteratura nel 1982.

La storia inizia negli ultimi anni dell'Ottocento a Cartagena, città magica e sensuale e ripercorre cinquant'anni di vita del protagonista, un uomo che aspetta per mezzo secolo l'unica donna che ha amato. Tempo e luogo in cui c’erano dei confini molto rigidi tra le classi dominanti e quelle inferiori.
Fiorentino Ariza è un impiegato telegrafista, un uomo malinconico e posato appassionato di poesia.
È innamorato di Fermina Daza, ma il padre di lei non approva l’unione e la giovane viene data in sposa a Juvenal Urbino, il ricco medico della città.
Il matrimonio di Fermina e Juvenal, partito senza amore, diventerà con il tempo e le avversità un rapporto solido e felice.
Florentino si butterà a capofitto nel lavoro per poter essere degno dell’amore di Fermina e inizierà una brillante carriera all’interno dell’azienda dello zio, la Compagnia Fluviale dei Caraibi.
Nonostante la folla di amanti che accumulerà negli anni, Florentino si sentirà legato solo a Fermina. E aspetterà decenni per vedere realizzato il suo amore: alla morte di Juvenal, Florentino dichiarerà di nuovo a Fermina il suo amore e lei, dopo tanti anni di indifferenza, accetterà le sua attenzioni.
Insieme faranno un viaggio in uno dei battelli della Compagnia Fluviale di Florentino.









niente di me - nemmeno il vuoto



so che mai più
fulmine di sguardi
incendierà le stoppie 
nel mio giardino esiliato

e che per sempre 
a te 
che più di ogni altro ho amato
resterà sconosciuto
il piacere morbido
del mio corpo liquido
sciolto
nel mio sguardo languido
e che nulla
nemmeno un albero troppo vecchio
avrà più dita per i miei lunghi capelli
né foglie gracili dal verde tenue
per coprire il mio seno nudo
per acquietarne i sensi
con la tenerezza
di carezze leggere
e la mia voce

oh

la mia voce

farà eco stridulo alla cornacchia
e non alla melodia d'amore
dell'usignolo canterino
che nella più fresca alba
della più calda estate
canterà
"nella luce nera
dei tuoi occhi chiusi"
senza trovare in te
il ricordo del mio nome
smarrito tra altri nomi

e so che nulla resterà 
fra le tue mani aperte
nemmeno la traccia
profumata di quella bianca rosa
e della sua breve vita

niente
di me
nemmeno il vuoto





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Non sia mai ch'io ponga impedimenti all'unione di anime fedeli; Amore non è Amore se muta quando scopre un mutamento o tende a svanire quando l'altro s'allontana. Oh no! Amore è un faro sempre fisso che sovrasta la tempesta e non vacilla mai; è la stella-guida di ogni sperduta barca, il cui valore è sconosciuto, benché nota la distanza. Amore non è soggetto al Tempo, pur se rosee labbra e gote dovran cadere sotto la sua curva lama; Amore non muta in poche ore o settimane, ma impavido resiste al giorno estremo del giudizio: se questo è errore e mi sarà provato, io non ho mai scritto, e nessuno ha mai amato. W. Shakespeare

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Si dovrebbe, almeno ogni giorno, ascoltare qualche canzone, leggere una bella poesia, vedere un bel quadro, e, se possibile, dire qualche parola ragionevole. Johann Wolfgang Goethe

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